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martedì 8 settembre 2009

Messaggio del Papa per la Giornata Missionaria Mondiale 2009

"Le nazioni cammineranno alla sua luce" (Ap 21, 24)

In questa domenica, dedicata alle missioni, mi rivolgo innanzitutto a voi, Fratelli nel ministero episcopale e sacerdotale, e poi anche a voi, fratelli e sorelle dell'intero Popolo di Dio, per esortare ciascuno a ravvivare in sé la consapevolezza del mandato missionario di Cristo di fare "discepoli tutti i popoli" (Mt 28,19), sulle orme di san Paolo, l'Apostolo delle Genti.

"Le nazioni cammineranno alla sua luce" (Ap 21,24). Scopo della missione della Chiesa infatti è di illuminare con la luce del Vangelo tutti i popoli nel loro cammino storico verso Dio, perché in Lui abbiano la loro piena realizzazione ed il loro compimento. Dobbiamo sentire 1'ansia e la passione di illuminare tutti i popoli, con la luce di Cristo, che risplende sul volto della Chiesa, perché tutti si raccolgano nell'unica famiglia umana, sotto la paternità amorevole di Dio.

È in questa prospettiva che i discepoli di Cristo sparsi in tutto il mondo operano, si affaticano, gemono sotto il peso delle sofferenze e donano la vita. Riaffermo con forza quanto più volte è stato detto dai miei venerati Predecessori: la Chiesa non agisce per estendere il suo potere o affermare il suo dominio, ma per portare a tutti Cristo, salvezza del mondo. Noi non chiediamo altro che di metterci al servizio dell'umanità, specialmente di quella più sofferente ed emarginata, perché crediamo che "l'impegno di annunziare il Vangelo agli uomini del nostro tempo... è senza alcun dubbio un servizio reso non solo alla comunità cristiana, ma anche a tutta l'umanità" (Evangelii nuntiandi, 1), che "conosce stupende conquiste, ma sembra avere smarrito il senso delle realtà ultime e della stessa esistenza" (Redemptoris missio, 2).

1. Tutti i Popoli chiamati alla salvezza

L'umanità intera, in verità, ha la vocazione radicale di ritornare alla sua sorgente, che è Dio, nel Quale solo troverà il suo compimento finale mediante la restaurazione di tutte le cose in Cristo. La dispersione, la molteplicità, il conflitto, l'inimicizia saranno rappacificate e riconciliate mediante il sangue della Croce, e ricondotte all'unità.

L'inizio nuovo è già cominciato con la risurrezione e l'esaltazione di Cristo, che attrae tutte le cose a sé, le rinnova, le rende partecipi dell'eterna gioia di Dio. Il futuro della nuova creazione brilla già nel nostro mondo ed accende, anche se tra contraddizioni e sofferenze, la speranza di vita nuova. La missione della Chiesa è quella di "contagiare" di speranza tutti i popoli. Per questo Cristo chiama, giustifica, santifica e invia i suoi discepoli ad annunciare il Regno di Dio, perché tutte le nazioni diventino Popolo di Dio. È solo in tale missione che si comprende ed autentica il vero cammino storico dell'umanità. La missione universale deve divenire una costante fondamentale della vita della Chiesa. Annunciare il Vangelo deve essere per noi, come già per l'apostolo Paolo, impegno impreteribile e primario.

2. Chiesa pellegrina

La Chiesa universale, senza confini e senza frontiere, si sente responsabile dell'annuncio del Vangelo di fronte a popoli interi (cfr Evangelii nuntiandi, 53). Essa, germe di speranza per vocazione, deve continuare il servizio di Cristo al mondo. La sua missione e il suo servizio non sono a misura dei bisogni materiali o anche spirituali che si esauriscono nel quadro dell'esistenza temporale, ma di una salvezza trascendente, che si attua nel Regno di Dio (cfr Evangelii nuntiandi, 27). Questo Regno, pur essendo nella sua completezza escatologico e non di questo mondo (cfr Gv 18,36), è anche in questo mondo e nella sua storia forza di giustizia, di pace, di vera libertà e di rispetto della dignità di ogni uomo. La Chiesa mira a trasformare il mondo con la proclamazione del Vangelo dell'amore, "che rischiara sempre di nuovo un mondo buio e ci dà il coraggio di vivere e di agire e... in questo modo di far entrare la luce di Dio nel mondo" (Deus caritas est, 39). È a questa missione e servizio che, anche con questo Messaggio, chiamo a partecipare tutti i membri e le istituzioni della Chiesa.

3. Missio ad gentes

La missione della Chiesa, perciò, è quella di chiamare tutti i popoli alla salvezza operata da Dio tramite il Figlio suo incarnato. È necessario pertanto rinnovare l'impegno di annunciare il Vangelo, che è fermento di libertà e di progresso, di fraternità, di unità e di pace (cfr Ad gentes, 8). Voglio "nuovamente confermare che il mandato d'evangelizzare tutti gli uomini costituisce la missione essenziale della Chiesa" (Evangelii nuntiandi, 14), compito e missione che i vasti e profondi mutamenti della società attuale rendono ancor più urgenti. È in questione la salvezza eterna delle persone, il fine e compimento stesso della storia umana e dell'universo. Animati e ispirati dall'Apostolo delle genti, dobbiamo essere coscienti che Dio ha un popolo numeroso in tutte le città percorse anche dagli apostoli di oggi (cfr At 18,10). Infatti "la promessa è per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro" (At 2,39).

La Chiesa intera deve impegnarsi nella missio ad gentes, fino a che la sovranità salvifica di Cristo non sia pienamente realizzata: "Al presente non vediamo ancora che ogni cosa sia a Lui sottomessa" (Eb 2,8).

4. Chiamati ad evangelizzare anche mediante il martirio

In questa Giornata dedicata alle missioni, ricordo nella preghiera coloro che della loro vita hanno fatto un'esclusiva consacrazione al lavoro di evangelizzazione. Una menzione particolare è per quelle Chiese locali, e per quei missionari e missionarie che si trovano a testimoniare e diffondere il Regno di Dio in situazioni di persecuzione, con forme di oppressione che vanno dalla discriminazione sociale fino al carcere, alla tortura e alla morte. Non sono pochi quelli che attualmente sono messi a morte a causa del suo "Nome". È ancora di tremenda attualità quanto scriveva il mio venerato Predecessore, Papa Giovanni Paolo II: "La memoria giubilare ci ha aperto uno scenario sorprendente, mostrandoci il nostro tempo particolarmente ricco di testimoni che, in un modo o nell'altro, hanno saputo vivere il Vangelo in situazioni di ostilità e persecuzione, spesso fino a dare la prova suprema del sangue" (Novo millennio ineunte, 41).

La partecipazione alla missione di Cristo, infatti, contrassegna anche il vivere degli annunciatori del Vangelo, cui è riservato lo stesso destino del loro Maestro. "Ricordatevi della parola che vi ho detto: Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi" (Gv 15,20). La Chiesa si pone sulla stessa via e subisce la stessa sorte di Cristo, perché non agisce in base ad una logica umana o contando sulle ragioni della forza, ma seguendo la via della Croce e facendosi, in obbedienza filiale al Padre, testimone e compagna di viaggio di questa umanità.

Alle Chiese antiche come a quelle di recente fondazione ricordo che sono poste dal Signore come sale della terra e luce del mondo, chiamate a diffondere Cristo, Luce delle genti, fino agli estremi confini della terra. La missio ad gentes deve costituire la priorità dei loro piani pastorali.

Alle Pontificie Opere Missionarie va il mio ringraziamento e incoraggiamento per l'indispensabile lavoro che assicurano di animazione, formazione missionaria e aiuto economico alle giovani Chiese. Attraverso queste Istituzioni pontificie si realizza in maniera mirabile la comunione tra le Chiese, con lo scambio di doni, nella sollecitudine vicendevole e nella comune progettualità missionaria.

5. Conclusione

La spinta missionaria è sempre stata segno di vitalità delle nostre Chiese (cfr Redemptoris missio, 2). È necessario, tuttavia, riaffermare che l'evangelizzazione è opera dello Spirito e che prima ancora di essere azione è testimonianza e irradiazione della luce di Cristo (cfr Redemptoris missio, 26) da parte della Chiesa locale, la quale invia i suoi missionari e missionarie per spingersi oltre le sue frontiere. Chiedo perciò a tutti i cattolici di pregare lo Spirito Santo perché accresca nella Chiesa la passione per la missione di diffondere il Regno di Dio e di sostenere i missionari, le missionarie e le comunità cristiane impegnate in prima linea in questa missione, talvolta in ambienti ostili di persecuzione.

Invito, allo stesso tempo, tutti a dare un segno credibile di comunione tra le Chiese, con un aiuto economico, specialmente nella fase di crisi che sta attraversando l'umanità, per mettere le giovani Chiese locali in condizione di illuminare le genti con il Vangelo della carità.

Ci guidi nella nostra azione missionaria la Vergine Maria, stella della Nuova Evangelizzazione, che ha dato al mondo il Cristo, posto come luce delle genti, perché porti la salvezza "sino all'estremità della terra" (At 13,47).

A tutti la mia Benedizione.

Dal Vaticano, 29 giugno 2009

BENEDICTUS PP. XVI

[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]


sabato 6 giugno 2009

Le novità della GMG di Madrid 2011

Intervista a Yago de la Cierva, direttore della comunicazione per questo evento


di María de la Torre

 
ROMA, giovedì, 4 giugno 2009 (ZENIT.org).- La Giornata Mondiale della Gioventù (GMG) che si celebrerà nell'agosto 2011 a Madrid riserva sorprese, che Santiago de la Cierva, direttore della comunicazione dell'evento, inizia a svelare in questa intervista.

Yago, come lo chiamano tutti, fondatore e direttore – fino a poco fa – dell'agenzia televisiva "Rome Reports", insegna dal 1999 nel famoso corso "Comunicazione di crisi", impartito presso la Facoltà di Comunicazione della Pontificia Università della Santa Croce di Roma.

In questa intervista concessa a ZENIT, confessa che la prima cosa che gli è venuta in mente quando il Cardinale Antonio María Rouco Varela, Arcivescovo di Madrid, gli ha proposto questa nuova missione è stata: "Non c'è nessun altro?".

A parte gli scherzi, afferma che "a questo tipo di cose non bisogna pensare molto, è un treno che passa. Qualcuno ti dice: 'Sali', e con un po' di fede ci si rende conto che, anche se ti complica la vita, anche se evidentemente non ci sono sere libere, non ci sono fine settimana né vacanze... in fondo ne vale la pena".

Per questo professionista della comunicazione, l'esperienza sarà "un'avventura fantastica. Tutti i capelli mi diventeranno bianchi, ma ne varrà la pena perché è nel cuore della Chiesa e i giovani non hanno molte possibilità di dire 'La Chiesa è mia'. Sembra che si debba dire loro tutto. Non prendono la parola, non assumono l'iniziativa. Credo che sia un grande modo per mobilitare i giovani e anche quelli che non sono più tanto giovani".

Quale valore aggiunto avrà Madrid 2011 rispetto alle GMG precedenti?

Yago de la Cierva: Madrid 2011 non avrà niente di nuovo rispetto alle altre edizioni se non il luogo, il momento storico, la voglia di fare tutto molto bene, tutto ciò che comporta il fatto di celebrare l'evento in un Paese come la Spagna, che ha duemila anni di cristianesimo e dove perfino le pietre trasudano fede, trasudano una tradizione plurisecolare. E' questo che farà di Madrid 2011 una Giornata Mondiale molto speciale.

Tenendo conto che siamo in Europa, alla fine dell'Europa ma ancora nel continente, calcoliamo che verrà più di un milione di persone. Probabilmente cercheremo di arrivare a ciò che è avvenuto a Roma nel 2000, ma non dipende da noi.

Credo che l'aspetto particolare della Giornata Mondiale della Gioventù di Madrid sarà proprio il fatto di svolgersi in un Paese che è sempre stato fedele alla Chiesa cattolica. E' un Paese che ha trasmesso la fede a molti continenti, la maggior parte dei cattolici del mondo parla spagnolo proprio perché è stata evangelizzata dagli spagnoli e ci piacerebbe recuperare quello spirito missionario. A volte si pensa che i missionari fossero persone adulte, che andavano a predicare lontano, ma in realtà avevano meno di 25 anni. Ci piacerebbe recuperare quello spirito e presentarlo ai giovani di oggi.

Un'altra caratteristica della Giornata Mondiale di Madrid saranno le reti. Per la prima volta avremo una Giornata Mondiale della Gioventù in cui lo strumento fondamentale della comunicazione sarà Internet, saranno le reti sociali, non solo come informazione, ma anche come comunicazione, per creare comunità. A Sydney si è già iniziato a farlo, ma credo che stavolta ci sarà l'esplosione, anche di nuove tecnologie. Nel 2011 probabilmente quasi tutti coloro che verranno avranno telefoni di nuova generazione. Sarà molto facile essere in contatto, ricevere le informazioni, approfittare del telefono per ricevere le traduzioni delle parole del Santo Padre, i messaggi dell'organizzazione, ecc.

A Sydney i giovani hanno ricevuto messaggi del Papa sui loro telefoni cellulari. Si pensa a qualche sorpresa di questo tipo a Madrid?

Yago de la Cierva: Non posso assicurare che il Papa manderà messaggi. Ci proveremo, ma la decisione spetta a lui. Abbiamo appena visto come il Papa abbia iniziato a usare Facebook per stare in contatto con i giovani, e questo è solo l'inizio.

Evidentemente non possiamo chiedere al Santo Padre di stare collegato due ore al giorno per vedere se può rispondere personalmente. Non è la sua missione, non ha il tempo e gli chiediamo altro, ma da questo si va al passo successivo: che tutta la Chiesa cattolica utilizzi le reti sociali come uno strumento fondamentale, non solo per trasmettere la fede ma per viverla meglio, per conoscerla meglio, per creare comunità. Creare reti sociali vuol dire creare gruppi sociali e a volte abbiamo poco tempo. Grazie alle reti sociali, tuttavia, possiamo stare in contatto e mettere in pratica la fede in un altro modo, più virtuale ma anche reale.

Non c'è il rischio che la Giornata Mondiale della Gioventù si trasformi in tre giorni di festa e si dimentichi fino alla prossima celebrazione, che non ci sia continuità?

Yago de la Cierva: A Madrid cercheremo di seguire l'esempio di Sydney e delle GMG precedenti, perché l'organizzazione aveva presente che la Giornata Mondiale non è un punto di arrivo, ma un punto di partenza. Questo è molto importante, perché la GMG in fondo non è altro che una festa che il Santo Padre convoca per tutti i giovani, cattolici e non cattolici, cristiani e non cristiani, ma con un interesse per i valori trascendenti e che vogliono entrare in una casa estranea e dire: "Vediamo come si vive qui. Questa gente sembra contenta. E' felice. Si diverte e prega! Questo sembra una contraddizione".

Si tratta di questo: la Giornata Mondiale è una festa e tutti i giovani e gli adulti che hanno organizzato feste sanno che ci sono cose molto importanti come il posto, l'ora, la musica, ciò che si mangia... ma la cosa più importante in una festa sono gli invitati. Se si azzeccano gli invitati, il successo della festa è assicurato. Succede lo stesso con la Giornata Mondiale. Saranno giornate di festa, sì, ma cercheremo di far sì che ci sia di tutto: vita di pietà, adorazione eucaristica, catechesi, cultura, divertimento..., tutto, perché i giovani come gli adulti non possono trascorrere 14 ore in preghiera. Ci sarà assolutamente di tutto. Ci saranno dottrina eucaristica e apprendimento della dottrina cristiana: cercheremo di far sì che si conosca la fede attraverso la cultura spagnola.

Quale potremmo dire che sia la sfida a livello comunicativo?

Yago de la Cierva: La sfida di rispondere alle aspettative della gente, e le aspettative sono molto alte. Dobbiamo arrivare a tre tipi di pubblico.

C'è un primo pubblico composto da quanti verranno alla Giornata Mondiale, e con la comunicazione dobbiamo prepararli perché vengano a quello a cui devono venire, perché poi non abbiano nessun dispiacere, ma il contrario. E perché una volta che sono lì tutto funzioni bene. Bisogna tener conto che, anche se l'aspetto spirituale è importante, se poi non ti hanno dato da mangiare, non sei riuscito a dormire o hai dovuto camminare in modo esagerato si perdono le forze.

C'è poi un secondo pubblico, molto importante: i moltissimi giovani che vorrebbero venire e non potranno farlo e seguiranno l'evento per televisione, con le reti, via Internet, con la radio... Dobbiamo pensare anche a loro e per questo vedremo come riuscire a far sì che ogni trasmissione porti quasi dentro l'evento.

C'è infine un terzo pubblico, anch'esso molto rilevante, ed è composto dalle persone che non sono andate né hanno alcun interesse ad andare, ma che sono curiose di vedere cosa succede, cosa fa un milione e mezzo di giovani a Madrid, come vivono, perché sono lì, cosa si legge sui loro volti. Si chiedono: "Sono contenti? Sono felici? Aiutano gli altri? Dedicano del tempo a dare una mano in parrocchia o danno da mangiare in un ospizio o portano a passeggiare i bambini malati?...". Questo per noi è molto importante perché è l'immagine della Chiesa, e utilizzeremo il volto più bello della Chiesa, che sono i giovani, per spiegare e parlare di Gesù Cristo che è presente nei giovani. Sono i giovani che ci trasmetteranno la fede.

Cosa direbbe a un ragazzo che esita a partecipare alla Giornata Mondiale della Gioventù di Madrid?

Yago de la Cierva: A un ragazzo o a una ragazza che a poco tempo di distanza dall'evento è indeciso se partecipare o meno possiamo solo assicurare che ciò che troverà lì darà molte risposte, non tutte, a interrogativi molto profondi, che incontrerà gente con cui stringerà legami che possono durare tutta la vita e che alla fine dirà: "Che peccato che siano stati solo pochi giorni".

Possiamo dire che le Giornate Mondiali della Gioventù sono l'evento comunicativo più importante della Chiesa?

Yago de la Cierva: Credo che la Giornata Mondiale della Gioventù sia un evento molto importante per la comunicazione della Chiesa. Non so se è il più importante, il secondo, il terzo, perché in fondo tutto ciò che ha a che vedere con la Chiesa parla di Gesù Cristo e dell'efficacia della Grazia, e questo non lo possiamo misurare. La cosa importante è che la comunicazione della Giornata Mondiale aiuti a toccare il cuore di molti giovani – e forse anche di alcuni non giovani – che la vedono in televisione. L'importanza è dunque chiara. E' un evento organizzato dal Papa stesso – non ne organizza molti – ed è inoltre un'opportunità perché si conosca la Chiesa cattolica e perché i giovani siano su tutti i telegiornali, su tutti i quotidiani, sulle prime pagine, sulle riviste o in rete. Vuol dire quindi mettere nello spazio pubblico Gesù Cristo, il suo messaggio, quanto ci può rendere felici se seguiamo ciò che ci ha detto. Se è più o meno importante dipenderà da ciascuno. Ci sarà gente a cui toccherà il cuore.

[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]

giovedì 5 marzo 2009

Il Papa invita i giovani cristiani a dare speranza ai loro coetanei

Nel suo Messaggio per la Giornata Mondiale della Gioventù di quest'anno, che si celebrerà in ambito diocesano la Domenica delle Palme, Benedetto XVI invita i giovani cristiani a dare speranza ai loro coetanei proprio in un momento di crisi della speranza.

"La crisi di speranza colpisce più facilmente le nuove generazioni che, in contesti socio-culturali privi di certezze, di valori e di solidi punti di riferimento, si trovano ad affrontare difficoltà che appaiono superiori alle loro forze", afferma il Papa nel testo, diffuso questo mercoledì dalla Sala Stampa della Santa Sede.

I giovani di oggi sono in molti casi "feriti dalla vita, condizionati da una immaturità personale che è spesso conseguenza di un vuoto familiare, di scelte educative permissive e libertarie e di esperienze negative e traumatiche", osserva.

"Per alcuni – e purtroppo non sono pochi – lo sbocco quasi obbligato è una fuga alienante verso comportamenti a rischio e violenti, verso la dipendenza da droghe e alcool, e verso tante altre forme di disagio giovanile".

Nonostante questo, "anche in chi viene a trovarsi in condizioni penose per aver seguito i consigli di 'cattivi maestri', non si spegne il desiderio di amore vero e di autentica felicità", constata il Vescovo di Roma, segnalando ai giovani la necessità "di una nuova evangelizzazione, che aiuti le nuove generazioni a riscoprire il volto autentico di Dio".

Nel testo, il Papa ricorda ciò che ha detto ai giovani a Sydney durante la Messa conclusiva della GMG, esortandoli a lasciarsi plasmare da Dio "per essere messaggeri dell'amore divino, capaci di costruire un futuro di speranza per tutta l'umanità".

"La questione della speranza è, in verità, al centro della nostra vita di esseri umani e della nostra missione di cristiani, soprattutto nell'epoca contemporanea", sottolinea.

La speranza che devono trasmettere i giovani, aggiunge, deve essere "salda ed affidabile". "L'esperienza dimostra che le qualità personali e i beni materiali non bastano ad assicurare quella speranza di cui l'animo umano è in costante ricerca".

In questo senso, sottolinea che "una delle conseguenze principali dell'oblio di Dio è l'evidente smarrimento che segna le nostre società, con risvolti di solitudine e violenza, di insoddisfazione e perdita di fiducia che non raramente sfociano nella disperazione".

San Paolo, modello per i giovani

Approfittando del fatto che questa GMG si svolgerà nel contesto dell'Anno Paolino, il Papa propone nel Messaggio ai giovani San Paolo come modello di "testimone della speranza" nella crisi e nelle difficoltà che ha dovuto affrontare.

Quando ha incontrato Cristo sulla via di Damasco, spiega, "Saulo era un giovane come voi, di circa venti o venticinque anni, seguace della Legge di Mosè e deciso a combattere con ogni mezzo quelli che egli riteneva nemici di Dio".

Per Paolo, "la speranza non è solo un ideale o un sentimento, ma una persona viva: Gesù Cristo, il Figlio di Dio", aggiunge il Pontefice. "Come un giorno incontrò il giovane Paolo, Gesù vuole incontrare anche ciascuno di voi, cari giovani".

Questo incontro con Cristo avviene soprattutto "nella preghiera", sottolinea, invitando i giovani a fare spazio alla preghiera non solo personale, ma anche comunitaria: "Ci sono molti modi per familiarizzare con Lui; esistono esperienze, gruppi e movimenti, incontri e itinerari per imparare a pregare e crescere così nell'esperienza della fede. Prendete parte alla liturgia nelle vostre parrocchie e nutritevi abbondantemente della Parola di Dio e dell'attiva partecipazione ai Sacramenti".

Allo stesso modo, Benedetto XVI esorta all'evangelizzazione: "La Chiesa conta su di voi per questa impegnativa missione: non vi scoraggino le difficoltà e le prove che incontrate. Siate pazienti e perseveranti, vincendo la naturale tendenza dei giovani alla fretta, a volere tutto e subito".

mercoledì 4 marzo 2009

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI PER LA QUARESIMA 2009

"Gesù, dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti,
ebbe fame"
(Mt 4,2)

 

Cari fratelli e sorelle!

All'inizio della Quaresima, che costituisce un cammino di più intenso allenamento spirituale, la Liturgia ci ripropone tre pratiche penitenziali molto care alla tradizione biblica e cristiana - la preghiera, l'elemosina, il digiuno - per disporci a celebrare meglio la Pasqua e a fare così esperienza della potenza di Dio che, come ascolteremo nella Veglia pasquale, "sconfigge il male, lava le colpe, restituisce l'innocenza ai peccatori, la gioia agli afflitti. Dissipa l'odio, piega la durezza dei potenti, promuove la concordia e la pace" (Preconio pasquale). Nel consueto mio Messaggio quaresimale, vorrei soffermarmi quest'anno a riflettere in particolare sul valore e sul senso del digiuno. La Quaresima infatti richiama alla mente i quaranta giorni di digiuno vissuti dal Signore nel deserto prima di intraprendere la sua missione pubblica. Leggiamo nel Vangelo: "Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame" (Mt 4,1-2). Come Mosè prima di ricevere le Tavole della Legge (cfr Es 34,28), come Elia prima di incontrare il Signore sul monte Oreb (cfr 1 Re 19,8), così Gesù pregando e digiunando si preparò alla sua missione, il cui inizio fu un duro scontro con il tentatore.

Possiamo domandarci quale valore e quale senso abbia per noi cristiani il privarci di un qualcosa che sarebbe in se stesso buono e utile per il nostro sostentamento. Le Sacre Scritture e tutta la tradizione cristiana insegnano che il digiuno è di grande aiuto per evitare il peccato e tutto ciò che ad esso induce. Per questo nella storia della salvezza ricorre più volte l'invito a digiunare. Già nelle prime pagine della Sacra Scrittura il Signore comanda all'uomo di astenersi dal consumare il frutto proibito: "Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire" (Gn 2,16-17). Commentando l'ingiunzione divina, san Basilio osserva che "il digiuno è stato ordinato in Paradiso", e "il primo comando in tal senso è stato dato ad Adamo". Egli pertanto conclude: "Il 'non devi mangiare' è, dunque, la legge del digiuno e dell'astinenza" (cfr Sermo de jejunio: PG 31, 163, 98). Poiché tutti siamo appesantiti dal peccato e dalle sue conseguenze, il digiuno ci viene offerto come un mezzo per riannodare l'amicizia con il Signore. Così fece Esdra prima del viaggio di ritorno dall'esilio alla Terra Promessa, invitando il popolo riunito a digiunare "per umiliarci - disse - davanti al nostro Dio" (8,21). L'Onnipotente ascoltò la loro preghiera e assicurò il suo favore e la sua protezione. Altrettanto fecero gli abitanti di Ninive che, sensibili all'appello di Giona al pentimento, proclamarono, quale testimonianza della loro sincerità, un digiuno dicendo: "Chi sa che Dio non cambi, si ravveda, deponga il suo ardente sdegno e noi non abbiamo a perire!" (3,9). Anche allora Dio vide le loro opere e li risparmiò.

Nel Nuovo Testamento, Gesù pone in luce la ragione profonda del digiuno, stigmatizzando l'atteggiamento dei farisei, i quali osservavano con scrupolo le prescrizioni imposte dalla legge, ma il loro cuore era lontano da Dio. Il vero digiuno, ripete anche altrove il divino Maestro, è piuttosto compiere la volontà del Padre celeste, il quale "vede nel segreto, e ti ricompenserà" (Mt 6,18). Egli stesso ne dà l'esempio rispondendo a satana, al termine dei 40 giorni passati nel deserto, che "non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio" (Mt 4,4). Il vero digiuno è dunque finalizzato a mangiare il "vero cibo", che è fare la volontà del Padre (cfr Gv 4,34). Se pertanto Adamo disobbedì al comando del Signore "di non mangiare del frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male", con il digiuno il credente intende sottomettersi umilmente a Dio, confidando nella sua bontà e misericordia.

Troviamo la pratica del digiuno molto presente nella prima comunità cristiana (cfr At 13,3; 14,22; 27,21; 2 Cor 6,5). Anche i Padri della Chiesa parlano della forza del digiuno, capace di tenere a freno il peccato, reprimere le bramosie del "vecchio Adamo", ed aprire nel cuore del credente la strada a Dio. Il digiuno è inoltre una pratica ricorrente e raccomandata dai santi di ogni epoca. Scrive san Pietro Crisologo: "Il digiuno è l'anima della preghiera e la misericordia la vita del digiuno, perciò chi prega digiuni. Chi digiuna abbia misericordia. Chi nel domandare desidera di essere esaudito, esaudisca chi gli rivolge domanda. Chi vuol trovare aperto verso di sé il cuore di Dio non chiuda il suo a chi lo supplica" (Sermo 43: PL 52, 320. 332).

Ai nostri giorni, la pratica del digiuno pare aver perso un po' della sua valenza spirituale e aver acquistato piuttosto, in una cultura segnata dalla ricerca del benessere materiale, il valore di una misura terapeutica per la cura del proprio corpo. Digiunare giova certamente al benessere fisico, ma per i credenti è in primo luogo una "terapia" per curare tutto ciò che impedisce loro di conformare se stessi alla volontà di Dio. Nella Costituzione apostolica Pænitemini del 1966, il Servo di Dio Paolo VI ravvisava la necessità di collocare il digiuno nel contesto della chiamata di ogni cristiano a "non più vivere per se stesso, ma per colui che lo amò e diede se stesso per lui, e ... anche a vivere per i fratelli" (cfr Cap. I). La Quaresima potrebbe essere un'occasione opportuna per riprendere le norme contenute nella citata Costituzione apostolica, valorizzando il significato autentico e perenne di quest'antica pratica penitenziale, che può aiutarci a mortificare il nostro egoismo e ad aprire il cuore all'amore di Dio e del prossimo, primo e sommo comandamento della nuova Legge e compendio di tutto il Vangelo (cfr Mt 22,34-40).

La fedele pratica del digiuno contribuisce inoltre a conferire unità alla persona, corpo ed anima, aiutandola ad evitare il peccato e a crescere nell'intimità con il Signore. Sant'Agostino, che ben conosceva le proprie inclinazioni negative e le definiva "nodo tortuoso e aggrovigliato" (Confessioni, II, 10.18), nel suo trattato L'utilità del digiuno, scriveva: "Mi dò certo un supplizio, ma perché Egli mi perdoni; da me stesso mi castigo perché Egli mi aiuti, per piacere ai suoi occhi, per arrivare al diletto della sua dolcezza" (Sermo 400, 3, 3: PL 40, 708). Privarsi del cibo materiale che nutre il corpo facilita un'interiore disposizione ad ascoltare Cristo e a nutrirsi della sua parola di salvezza. Con il digiuno e la preghiera permettiamo a Lui di venire a saziare la fame più profonda che sperimentiamo nel nostro intimo: la fame e sete di Dio.

Al tempo stesso, il digiuno ci aiuta a prendere coscienza della situazione in cui vivono tanti nostri fratelli. Nella sua Prima Lettera san Giovanni ammonisce: "Se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui l'amore di Dio?" (3,17). Digiunare volontariamente ci aiuta a coltivare lo stile del Buon Samaritano, che si china e va in soccorso del fratello sofferente (cfr Enc. Deus caritas est, 15). Scegliendo liberamente di privarci di qualcosa per aiutare gli altri, mostriamo concretamente che il prossimo in difficoltà non ci è estraneo. Proprio per mantenere vivo questo atteggiamento di accoglienza e di attenzione verso i fratelli, incoraggio le parrocchie ed ogni altra comunità ad intensificare in Quaresima la pratica del digiuno personale e comunitario, coltivando altresì l'ascolto della Parola di Dio, la preghiera e l'elemosina. Questo è stato, sin dall'inizio, lo stile della comunità cristiana, nella quale venivano fatte speciali collette (cfr 2 Cor 8-9; Rm 15, 25-27), e i fedeli erano invitati a dare ai poveri quanto, grazie al digiuno, era stato messo da parte (cfr Didascalia Ap., V, 20,18). Anche oggi tale pratica va riscoperta ed incoraggiata, soprattutto durante il tempo liturgico quaresimale.

Da quanto ho detto emerge con grande chiarezza che il digiuno rappresenta una pratica ascetica importante, un'arma spirituale per lottare contro ogni eventuale attaccamento disordinato a noi stessi. Privarsi volontariamente del piacere del cibo e di altri beni materiali, aiuta il discepolo di Cristo a controllare gli appetiti della natura indebolita dalla colpa d'origine, i cui effetti negativi investono l'intera personalità umana. Opportunamente esorta un antico inno liturgico quaresimale: "Utamur ergo parcius, / verbis, cibis et potibus, / somno, iocis et arctius / perstemus in custodia - Usiamo in modo più sobrio parole, cibi, bevande, sonno e giochi, e rimaniamo con maggior attenzione vigilanti".

Cari fratelli e sorelle, a ben vedere il digiuno ha come sua ultima finalità di aiutare ciascuno di noi, come scriveva il Servo di Dio Papa Giovanni Paolo II, a fare di sé dono totale a Dio (cfr Enc. Veritatis splendor, 21). La Quaresima sia pertanto valorizzata in ogni famiglia e in ogni comunità cristiana per allontanare tutto ciò che distrae lo spirito e per intensificare ciò che nutre l'anima aprendola all'amore di Dio e del prossimo. Penso in particolare ad un maggior impegno nella preghiera, nella lectio divina, nel ricorso al Sacramento della Riconciliazione e nell'attiva partecipazione all'Eucaristia, soprattutto alla Santa Messa domenicale. Con questa interiore disposizione entriamo nel clima penitenziale della Quaresima. Ci accompagni la Beata Vergine Maria, Causa nostrae laetitiae, e ci sostenga nello sforzo di liberare il nostro cuore dalla schiavitù del peccato per renderlo sempre più "tabernacolo vivente di Dio". Con questo augurio, mentre assicuro la mia preghiera perché ogni credente e ogni comunità ecclesiale percorra un proficuo itinerario quaresimale, imparto di cuore a tutti la Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, 11 Dicembre 2008

lunedì 23 febbraio 2009

Eugenismo e aborto

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martedì 17 febbraio 2009

Cosa vengono prima: le buone leggi o le buone famiglie?

Intervista a padre Raniero Cantalamessa

di Mercedes de la Torre

ROMA, lunedì, 16 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Secondo il Predicatore della Casa pontificia, i cristiani di oggi dovrebbero cercare di seguire l'esempio dei loro primi predecessori: cambiare la società con la propria testimonianza, piuttosto che concentrarsi per cambiare le leggi.

In questa intervista rilasciata a ZENIT padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., illustra le sfide che interpellano le famiglie cristiane.

Uno dei principali problemi della famiglia dei nostri tempi - come lei sostiene - è la carenza di amore. Quali soluzioni ci offrono le Sacre Scritture per le famiglie afflitte dai problemi di oggi?

Padre Cantalamessa: Il matrimonio nasce dall'umiltà, da un atto di umiltà. In esso, ciascuno riconosce la propria dipendenza, la necessità dell'altro. Senza umiltà, il matrimonio non riesce a rimanere in vita e in salute. La superbia è il nemico n. 1 del matrimonio e dell'amore stesso.

Io credo che oggi, più che difendere il matrimonio cristiano nella società e nella cultura, si debba cercare di migliorare la qualità della famiglia cristiana e lavorare affinché le famiglie cristiane siano veramente un luogo in cui il progetto iniziale di Dio sia realizzato, ovvero che l'uomo e la donna vivano nella coppia un amore che li porti a desiderare quell'Amore eterno e infinito.
 
Durante la conferenza all'Incontro Mondiale delle Famiglie in Messico, lei ha sostenuto che i cristiani dovrebbero impegnarsi nel mondo più con i fatti che con le parole, così come fu nei primi secoli della Chiesa. Ci può indicare allora quegli elementi che possiamo trovare nel messaggio biblico e che ci aiutano a dare nuovamente testimonianza in favore del Vangelo, della vita e della famiglia?

Padre Cantalamessa: Ho affermato - e ne sono convinto - che i primi cristiani, soprattutto nei primi tre secoli, sono riusciti a cambiare le leggi dello Stato con il loro comportamento. Oggi non possiamo pretendere di fare l'opposto, ovvero cambiare il comportamento attraverso le leggi dello Stato. Come cittadini dobbiamo fare tutto il possibile perché lo Stato adotti leggi buone, positive, che non siano contrarie alla vita, ma questo non è sufficiente. Non è sufficiente perché in una società pluralistica come quella di oggi, i cristiani di certi Paesi rappresentano già una minoranza e pertanto ci troviamo più vicini ad una situazione simile a quella dei primi secoli, piuttosto che a quella del Medioevo, in cui i cristiani non erano difesi dallo Stato, ma dalla loro vita e dalla loro testimonianza.

Qual è l'attuale processo di decostruzione della famiglia e in che modo questo si contrappone al progetto di Dio?

Padre Cantalamessa: Ci troviamo in situazioni estreme. È come se si volesse reinventare l'uomo, la donna, il matrimonio... con risultati "dis-umani". Per esempio, il progetto di abolizione dei sessi, in cui non vi sarebbe un'identità sessuale definita, ma in cui ognuno può costruire la sua vita a seconda del proprio desiderio di mascolinità, femminilità o di qualcosa di più variabile. Questo è inaccettabile: va contro la natura umana.

Il decostruttivismo propone per esempio di abolire la maternità, perché la vede come una schiavitù. La donna è resa schiava dalla maternità e per questo è stata trovata la maniera di far nascere i bambini in un altro modo, in un modo più artificiale. Queste sono le prospettive veramente pericolose, "dis-umane".

Ho molta fiducia nel buon senso della gente e nell'istinto: nel desiderio del sesso opposto che Dio ha instillato nella persona, e nel desiderio di maternità e paternità, che sono valori che Dio ha posto nel cuore umano.

Ma credo che queste proposte possano creare molti danni, come lo è stato per il Marxismo. Il Marxismo è stato riconosciuto come un grande male per la società, che ha fatto molte vittime. Allo stesso modo, questa rivoluzione - la rivoluzione del genere - prima che la si riconosca come "dis-umana", avrà tempo di procurare danni enormi.

martedì 3 febbraio 2009

Intervista da ZENIT

La vera storia della pillola abortiva Ru486 (I)
Un libro rivela tutto ciò che non viene detto sulla "pillola di Erode"

di Antonio Gaspari 


ROMA, lunedì, 2 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Mentre in Italia si aspetta il parere finale del Consiglio di Amministrazione dell'Agenzia italiana del farmaco (AIFA) per la distribuzione e vendita nelle farmacie e l'autorizzazione all'uso ospedaliero della pillola abortiva Ru486, è disponibile nelle librerie un libro che rivela molte delle realtà nascoste in merito alla pillola abortiva da molti chiamata "la pillola di Erode".

Il libro in questione ha per titolo "La storia vera della pillola abortiva RU 486" (Edizioni Cantagalli; pp. 288, Euro 21,00) ed è stato scritto da Cesare Cavoni e Dario Sacchini.

Dario Sacchini è ricercatore in Bioetica presso l'Istituto di Bioetica dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. Coautore di diversi volumi tra cui "Etica e giustizia in sanità. Questioni generali, aspetti metodologici e organizzativi" (2004) e "La vecchiaia e i suoi volti. Una lettura etico-antropologica" (2008).

Cesare Davide Cavoni, è invece giornalista professionista presso l'emittente SAT 2000; è laureato in Lettere ed ha conseguito il Master in Bioetica presso la Pontificia Università Lateranense di Roma.

È docente di Bioetica e Mass media per i corsi di perfezionamento in Bioetica presso l'Istituto di Bioetica dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e presso l'Istituto "Giovanni Paolo II" della Pontificia Università Lateranense di Roma.

I due autori, con una documentazione precisa e dettagliata, rivelano i tantissimi rischi per la salute e per la società di un farmaco il cui obiettivo non è di "curare una malattia bensì di porre fine alla vita umana".

Cavoni e Sacchini non solo respingono l'idea che la gravidanza sia una malattia da curare con pillole tossiche per i concepiti e per le madri, ma denunciano quello che sarebbe l'obiettivo dei sostenitori dell'Ru486 e cioè "quello di demedicalizzare, togliere il più possibile dalla competenza e dall'influenza del medico l'aborto, per trasformarlo in un fatto del tutto privato e personale".

Per spiegare i contenuti e le finalità di un volume così attuale e scottante, ZENIT ha intervistato Cesare Cavoni.

Che cos'è la pillola Ru486? E' un farmaco? E quale malattia cura? 

Cavoni: Il mifepristone, chiamato Ru486 dall'industria farmaceutica Roussel-Uclaf che per prima ne sponsorizzò la ricerca, compare in letteratura nel 1982 ed è un ormone steroideo sintetico che provoca l'aborto.

Esso agisce su una tipologia di molecole denominate recettori, specifiche per il progesterone che è un ormone i cui organi bersaglio sono quelli coinvolti nella dinamica riproduttiva con lo scopo di favorire l'annidamento dell'embrione nell'utero e la prosecuzione della gravidanza.

L'alterazione indotta dall'Ru486 consiste nello sfaldamento delle cellule endometriali, nel sanguinamento e nel conseguente distacco dell'embrione.

Ma per poter portare a compimento l'aborto, oltre alla Ru486 viene somministrata anche un'altra pillola: si tratta di una prostaglandina che serve a stimolare le contrazioni e a espellere l'embrione.

Questa combinazione di farmaci poi deve essere utilizzata entro il 49° giorno, in un periodo cioè in cui i levelli di progesterone sono ancora bassi perché poi in una fase successiva tale ormone non potrà essere 'intercettato' dal mifepristone.

L'Ru486 è quindi un farmaco. Uno strano tipo di farmaco visto che per farmaco noi intendiamo qualcosa che curi, che lenisca un dolore o rallenti o guarisca da una malattia non certo una sostanza che possa causare la morte di qualcuno.

Credo sia la prima volta che venga utilizzato un farmaco per uccidere deliberatamente un essere umano. Perché l'embrione è un essere umano. Ogni donna quando è incinta, fin da subito parla di colui che porta in grembo come del proprio figlio; non dice alle amiche: "quando il feto nascerà lo chiamerò Marco", oppure "sto preparando la stanza per l'embrione".

Di conseguenza è facile capire come l'Ru486 non curi alcuna malattia poiché non c'è alcuna malattia da curare, a meno che non si voglia considerare la gravidanza come una malattia.

La gravidanza è una malattia?

Cavoni: Questo farmaco è davvero terrificante: per la prima volta constatiamo la messa a punto di un farmaco il cui obiettivo non è di curare una malattia bensì di porre fine ad una vita umana. O, meglio, sembrerebbe che la gravidanza venga annoverata, più o meno esplicitamente nel sentire comune, come una patologia, nella misura in cui una donna, non scegliendola, è costretta a subirla.

L'aborto, allora, potrebbe configurarsi, secondo questa visione, come la liberazione da una malattia o, più propriamente, da un male di vivere. È questa una visione perversamente drammatica della vita umana.

Così come è perverso il fatto che si decida di somministrare alle donne un farmaco, che porta con sé pesanti effetti collaterali, come se le donne fossero cavie su cui sperimentare indisturbati e, anzi, cercando di far passare una sperimentazione selvaggia come un diritto delle donne.

Da decenni si sperimentano sulle donne farmaci tossici di cui non si conosono o non si percepiscono fino in fondo i rischi a breve, medio e lungo termine. Di norma, si può agire così quando non vi siano ragionevoli alternative, quando cioè non usare una terapia sperimentale avrebbe come unica alternativa la morte della persona. Ma in questo caso – non trattandosi di malattia – il termine "sperimentale" cade per definizione.

Con l'utilizzo della pillola Ru486 l'aborto viene di fatto tolto dalla sfera della medicalizzazione, ricondotto totalmente nella sfera privata dell'individuo e, quindi, anche svincolato da ogni responsabilità sociale (oltre che morale) in nome di un nuovo concetto di "privacy", il quale è applicato a qualsiasi decisione riguardo al proprio corpo. Così si spalancano le porte ad un'assolutizzazione del principio di autonomia (il rispetto dell'autodeterminazione del soggetto), togliendo ogni diritto al nascituro e investendo anche la relazione con l'altro (l'embrione, il feto, il figlio) in base a tale principio.

L'aborto può essere compiuto nel chiuso della propria casa. E compare fin da subito l'opzione contraccettiva dell'Ru486, vista come il migliore anticoncezionale, sul quale si scatenano (e si scateneranno) interessi commerciali e guerre aziendali.

I sostenitori della Ru486 affermano che questa pillola eliminerebbe l'aborto chirurgico così da diventare una pratica che si può gestire individualmente. Qual è il suo pensiero in merito?

Cavoni: L'esperienza francese e quella americana ci mostrano che questo non è vero; vale a dire che proprio laddove si pensava che la Ru486 potesse sostituire l'aborto si è visto l'esatto contrario.

Chi abortisce in genere sceglie l'aborto chirurgico e questo per due motivi; uno perché dura poco, viene effettuato sotto anestesia e la percezione del dolore, fisico e psichico, è inferiore e poi perché psicologicamente l'iter della Ru486 diventa un vero calvario, estenuante; ci vogliono giorni prima di poter completare l'aborto e c'è il rischio, alto, di dover comunque ricorrere all'aborto chirurgico poiché in molti casi il cocktail Ru486 e prostalgandina non funziona e allora bisogna intervenire d'urgenza con l'aborto chirurgico.

Il peso psicologico di due, tre giorni o addirittura di una settimana in attesa dell'aborto dopo aver assunto la pillola, rende questa modalità snervante per la donna e le ripropone ad ogni istante esattamente l'atto che sta portando avanti, che lei lo voglia o no; cioè quello di stare per sopprimere una vita umana.

Si può giustificarlo come si vuole, si può far finta di non vederlo, ma è così. E in ogni caso sarà comunque un trauma che prima o poi riaffiorerà nella vita di quella donna. E poi il dolore fisico che accompagna questa attesa è micidiale; sanguinamenti molto più abbondanti di una normale mestruazione, dolori lancinanti.

La letteratura scientifica registra numerosi casi di emorragie fortissime. Tutto questo è ben chiaro, per esempio, dalla testimonianza della prima paziente che negli Stati Uniti decise di abortire con la Ru486.

Il suo racconto è lucido e privo di qualsiasi aspetto moraleggiante:

La giovane donna in questione fu la prima paziente che si sottopose alla sperimentazione dell'aborto tramite Ru486 negli Stati Uniti, presso l'ospedale di Des Moines in Iowa; ella non se ne dichiarò pentita. La donna, 30 anni, con un marito e due figli, era terrorizzata dall'aborto chirurgico a causa di una brutta esperienza vissuta da una sua amica:

«Sono stata per la prima volta a Des Moins. Tutti erano molto eccitati mercoledì quando mi è stata somministrata la prima dose di farmaci. Scherzando dicevo che ci sarebbe dovuta essere una cerimonia col taglio del nastro. Loro continuavano a dirmi che stavo facendo la storia. In un paio d'ore ho cominciato a provare nausea, ho tirato avanti per tre giorni e sono andata a lavorare. Per fortuna c'è una saletta per riposarsi nel mio ufficio; mi muovevo un po' più piano. Di norma sono sempre molto su di giri ma per quei tre giorni non lo sono stata. Mi sembrava come se avessi mangiato del cibo avvelenato.

Sono tornata di venerdì e ho preso la seconda dose di farmaci; dopo cinque minuti ho cominciato a sentire dei crampi un po' meno forti di quelli delle mestruazioni. Dopo due ore i crampi sono diventati più forti e ho cominciato ad usare un cuscinetto riscaldante sulla pancia. Sono andata nella stanza di riposo; quando però ho provato ad alzarmi mi sentivo come se mi avessero aperto un rubinetto. C'era un continuo flusso di sangue e poi mi è passato un grumo di sangue della grandezza di una pallina da golf, che mi ha terrorizzata.

Pensavo che fosse il feto. I crampi sono rimasti stabili. Negli ultimi quindici minuti della mia visita mi sentivo sdoppiata e l'emorragia era molto pesante, più di quella mestruale. Mia madre mi ha portato a casa; in quel momento sanguinavo molto e ho avuto la diarrea. Mi ha fatto tornare in mente il modo in cui sanguini dopo il parto. Forse una donna che non ha partorito potrebbe essere un po' più rilassata.

Ho abortito alle 6.30 di venerdì notte. L'ho sentito cadere nella tazza. Sembrava come un grumo di sangue. Ho gridato quando mi sono resa conto che era uscito, in parte perché mi sentivo sollevata, in parte perché mi sentivo triste.  Capii che era finita».

Quando poi si sostiene che l'aborto tramite Ru486 sia meno costoso e più veloce mi sembra proprio che le evidenze affermino proprio il contrario. Anche su questi punti parlano le donne e non i bioeticisti, i medici.

La situazione è stata anche in questo caso ben  fotografata da una inchiesta realizzata dalla più nota giornalista scientifica statunitense, Gina Kolata, che di certo non passa per una fondamentalista cattolica.

Ebbene la Kolata, nel 2002 ha scritto sul New York Times, riportando il parere di molti specialisti, che l'aborto con la Ru486 richiede un tempo maggiore ed è più costoso dell'aborto chirurgico. Le donne poi non sembrano essere interessate dal momento che vengono richieste tre visite in ambulatorio per due settimane, due diversi farmaci, qualche emorragia e crampi.

Qualche fornitore fa pagare oltre 100 dollari in più per un aborto medico rispetto a quello chirurgico, spiegando che ogni pillola di Mifepristone costa 100 dollari. Molti usano un dosaggio più basso, somministrando una pillola invece delle tre che l'azienda produttrice raccomanda, ma aggiunge che il costo extra dell'aborto indotto tramite pillola, è ancora un peso gravoso per molti pazienti.

Ma ciò sui cui inciderà di più l'uso dell'Ru486 è la sanità pubblica: un risparmio di medici dedicati solo a quel servizio, così poco ambìto e che non consente di fare certo brillanti carriere.

Dunque per la sanità pubblica ci sarebbe un risparmio di medici dedicati solo a quel servizio, più letti a disposizione ma,  a questo punto, un costo non proprio lieve se si chiede allo Stato di passare gratuitamente il farmaco.

Pensate che la vecchia azienda produttrice voleva piazzarla, all'epoca, siamo negli anni '80, a non meno di 500 franchi francesi.

Per quanto si possa scendere di prezzo, il costo per la sanità pubblica resterebbe comunque altissimo, a fronte di risultati non proprio incoraggianti e, anzi, a fronte di ulteriori spese per tutti quegli aborti non riusciti tramite Ru486 e che quindi devono rientrare per la 'consueta' prassi chirurgica.

Anche per questo si è cercato di spingere molto perché si approfondissero ulteriori studi sulle proprietà del farmaco per curare malattie di tipo neurologico ad esempio, facendolo diventare un farmaco compassionevole per malati senza alternativa oltre la morte.

Riuscire a far approvare l'Ru486 per altri usi rispetto all'aborto, significa rendere legale il farmaco che, in un secondo momento, potrebbe essere utilizzato, fuori prescrizione, anche per l'aborto.

Credo sia questo l'obiettivo dei sostenitori di questa pillola mortifera. D'altronde avviene già lo stesso procedimento con l'altro farmaco che serve per completare l'aborto: esso è, infatti, registrato ufficialmente come antiulcera ma poi, siccome favorisce l'espulsione del feto-figlio, viene utilizzato all'occorrenza.

[Martedì, la seconda parte dell'intervista]

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